Negli ultimi tempi abbiamo spesso sentito parlare di upcycling, fenomeno che dal 2020, complice la pandemia, è cresciuto moltissimo soprattutto nel settore moda. Molti capi vintage o anche rimanenze di magazzino e dead-stock vivono una nuova vita diventando capi di tendenza. Non tutti sanno, però, che questa tendenza non è nata in tempi recenti ma la sua origine risale agli inizi degli anni 40. Andiamo a vedere più nel dettaglio l’evoluzione dell’upcycling.
LA NASCITA DEL TERMINE UPCYCLING
La prima attestazione del termine upcycling risale ad un articolo del 1994 presente sulla rivista di architettura Salvo, in un’intervista all’ingegnere meccanico Reiner Pilz che spiega: «Il riciclo io lo chiamo down-cycling. Quello che ci serve è l’up-cycling, grazie al quale ai vecchi prodotti viene dato un valore maggiore, e non minore».
"Quello di cui abbiamo bisogno è l'up-cycling, dove i vecchi prodotti hanno più valore, non meno." - R. Pilz
ANNI 40: MAKE DO AND MEND
Durante la Seconda guerra mondiale, gli inglesi abbracciarono e perfezionarono l'arte dell'upcycling dopo che, il primo giugno 1941, fu annunciato il razionamento dell'abbigliamento. Le forniture disponibili erano usate nella produzione di uniformi di guerra poiché circa un quarto della popolazione britannica era coinvolta nello sforzo bellico. Nello stesso periodo fu lanciata una campagna “Make Do and Mend” per incoraggiare i cittadini a far durare più a lungo le scorte di vestiti. Le donne a casa erano costrette a riciclare solo per poter vestire la loro famiglia in questo periodo di lotta. Venivano dispensati consigli su come far durare più a lungo i vestiti, su come lavarli, come prevenire i danni delle tarme sui materiali di lana e come conservare le scarpe.
Negli anni della guerra, la capacità di riparare, riciclare e fare vestiti da zero divenne sempre più importante.
La capacità di riparare, riciclare e fare vestiti da zero divenne sempre più importante. Le forniture divennero così scarse che le donne non potevano comprare i tessuti e dovettero ricorrere all'uso di tessuti per la casa, come tende e tovaglie, per fare vestiti. Anche il riutilizzo dei materiali di uso bellico era popolare, il materiale oscurante era a volte usato, così come la seta da paracadute, per la biancheria intima, le camicie da notte e gli abiti da sposa.
UN ESEMPIO DI UPCYCLING NEL FILM “VIA COL VENTO”
Un esempio calzante e memorabile di questo tipo di ingegnosità è mostrato nel film "Via col vento" del 1939. La protagonista Rossella, che si trova in gravi difficoltà economiche, decide di conquistare Rhett sperando di farsi sposare per salvare così l’amata piantagione di Tara. Per riuscire nell’intento non deve però fargli capire di trovarsi in una situazione di bisogno, anzi, deve cercare di presentarsi al meglio. Così, tira giù le tende di velluto verde dalla sala e con quelle si confeziona un elegante abito. Con il satin delle fodere cuce una sottoveste e con i ritagli di velluto ricopre un vecchio cappello che guarnisce, poi, con le piume più belle del gallo del loro pollaio.
Un’idea brillante quella di creare un meraviglioso abito partendo da tende o coperte, non trovate ? L'idea di riutilizzare questo tipo di tessuti la ritroviamo anche tra le fila dei nostri designer: dalle strepitose collezioni invernali di Masha Maria, all’ultima collezione del neo-brand francese Kistaku e di Fitolojio.
ANNI '80-'90: LA CUSTOMIZATION
L'upcycling, dopo gli anni 40, non è scomparso, è riemerso in grande stile alla fine degli anni '80 e all'inizio degli anni '90, quando il Regno Unito si trovò ad affrontare una grande recessione. Il pubblico rispose a questa crisi abbracciando l'idea dei vestiti usati. Gli adolescenti, appassionati del settore moda, volevano esprimere la propria identità ricorrendo all'upcycling e alla personalizzazione dei vestiti che erano stati tramandati dai loro parenti più anziani.
DAPPER DAN
Uno degli esempi più notevoli della storia moderna, prima che il termine "upcycling" venisse coniato, è Dapper Dan di Harlem negli anni '90. Lo stilista, infatti, ridisegnava abiti di marca presi dai suoi clienti per cambiarne la vestibilità e lo stile. Daniel Day è considerato tra i padri dello stile hip-hop afroamericano, nel suo negozio vendeva abiti che creava lui, spesso riutilizzando e trasformando vestiti, stoffe e accessori di grandi marche, oppure imprimendo loghi fasulli su giacche e borsoni: c’erano pellicce, accessori, giacche in pelle e carte da parati commissionate dai suoi clienti con marchi falsi. «Era contraffazione elevata ad arte. – scrive il New York Times – Day faceva le sue borse Gucci, Louis Vuitton e Fendi per clienti come Mike Tyson, LL Cool J e Eric B. e Rakim in stili e taglie che le aziende di lusso non offrivano».
«Era contraffazione elevata ad arte. Day faceva le sue borse Gucci, Louis Vuitton e Fendi […] in stili e taglie che le aziende di lusso non offrivano» - NY Times
21ESIMO SECOLO: L'UPCYCLING, UNA SCELTA ETICA
Nel 21° secolo l'upcycling è sempre più una scelta etica. Le grandi quantità di vestiti prodotti nei paesi in via di sviluppo con condizioni di lavoro discutibili, i danni ambientali causati dalla cultura del fast fashion, il consumo massiccio di acqua nella produzione del cotone e gli effetti inquinanti del denim che si distrugge preoccupano i consumatori che scelgono una moda più sostenibile. Vi è poi una maggiore attenzione alla moda unisex, i vestiti possono essere sempre più facilmente upcycled dall'abbigliamento maschile a quello femminile e viceversa. L'upcycling è, quindi, spesso una scelta morale per coloro che possono permettersi i vestiti e una scelta economica per coloro che non possono.